Gaia Passamonti, Storie avvolgibili: “Le storie? Sono potenti, da maneggiare con cura”
Uno studio di registrazione in disuso e una fervente passione per le storie da raccontare sono stati gli elementi scatenanti per dare vita a Storie avvolgibili, un progetto incentrato sullo storytelling e sulla passione per le storie scritte e raccontate bene, perché ogni storia deve essere “maneggiata con cura”.
Abbiamo incontrato Gaia Passamonti, co-fondatrice dell’agenzia di comunicazione Pensiero visibile, per farci raccontare come nel 2020 Storie Avvolgibili abbia preso forma in un momento in cui l’arte del narrare storie oralmente aveva la possibilità di ritrovare un suo spazio distintivo, un momento in cui il podcast poteva essere una controtendenza in una spazio dominato eccessivamente da video e immagini.
Come è nato il progetto Storie Avvolgibili?
Storie avvolgibili è nata in un contesto specifico, quello dell’agenzia di comunicazione Pensiero visibile, un’agenzia di media grandezza di Verona che ha sempre puntato sullo storytelling e sulla narrazione.
Nel 2015 si sono verificate due circostanze concomitanti: da un parte abbiamo avuto la possibilità di acquisire uno studio di registrazione che veniva dismesso e venduto a una cifra interessante. Una proposta che e stata fatta a me e al mio socio Alessandro Scardino, perché sia io che lui in passato ci siamo occupati di organizzazione di concerti, e che ci è sembrata fin da subito interessante per portare lo storytelling nell’audio.
Dall’altra parte, con l’obiettivo di fare formazione aziendale, stavamo scrivendo e portando in scena una serie di narrazioni dal vivo legate a figure di grande ispirazione provenienti da diversi ambiti; erano storie scritte da Diego Alverà, nostro direttore editoriale, e portate in scena con l’obiettivo di affiancarci un coach, che poi portasse a terra questi temi.
In realtà queste storie piacevano cosi tanto che abbiamo deciso di farle uscire dall’ambito aziendale: abbiamo iniziato a organizzare serate di storytelling dal vivo in vari contesti e a mettere in piedi un piccolo festival intitolato “Storie da raccontare” (ne abbiamo parlato in questo articolo).
Alcuni di noi comunque arrivavano dal mondo della radio, c’era quindi un pregresso sul tema audio, così tra il 2016 e il 2017 abbiamo iniziato a fare le prime sperimentazioni in ambito podcast, la primissima con un negozio di sneaker che ci ha chiesto di fare un podcast sulla storia dei brand più famosi.
Abbiamo lavorato in maniera spontanea portando avanti queste esperienze finché, dal 2018 in avanti con l’arrivo di Veleno e del mondo del podcast, credo di essere stata anche ai primi United States of podcast organizzati a Milano da Audible. Ecco, da lì in poi abbiamo iniziato a fare un po’ più sul serio, fino a quando nel 2020 è stato creato il brand, dedicato solo ai podcast, Storie Avvolgibili, e che ha mantenuto sia la parte podcast original prodotta da noi e realizzata in maniera indipendente, sia la parte di branded podcast collegata all’agenzia di comunicazione.
Cosa ti ha attirato del podcast? Quali potenzialità vedevi?
Essendo da sempre una fautrice della comunicazione attraverso la narrazione, mi è sembrato fin da subito un contenuto che fosse narrazione all’ennesima potenza, perché da una parte il fatto di essere solo “a voce” toglie una serie di facilitazioni come le immagini, dall’altra ci riporta a quello che è l’esperienza antichissima della narrazione a voce.
Mi sono laureata in letteratura greca antica e passando dai poemi omerici ai podcast mi sono ritrovata a chiudere un po’ il cerchio, ritrovando anche tutta una serie di tecniche già usate nell’antichità, anche prima di Omero, che venivano nuovamente messe in atto.
Questo mi ha affascinato tantissimo perché ho ritrovato la purezza della potenza del racconto. Tuttavia, vivo e viviamo tutti nella contemporaneità (anche legata a un’agenzia di comunicazione!). Questi aspetti di “potenza” sono legati a specifici temi neuroscientifici, quindi di funzionamento del cervello e di fascinazione della voce e del racconto, e ad altri aspetti estremamente contemporanei, come la fruizione on demand, il multitasking, l’utilizzo degli smartphone e via dicendo.
Sono aspetti che rispondono a quel desiderio di consumo di storie che da diversi anni è un trend della nostra società: sembra che con l’aumentare delle difficoltà e del disagio di stare al mondo, più l’essere umano desideri consumare storie in tantissime forme; e il podcast, anche il suo proliferare, risponde benissimo a questo bisogno, anche per il modo in cui i contenuti vengono fruiti.
Come si produce un podcast in modo “etico”?
Innanzitutto partendo dall’idea che non vogliamo cavalcare le emozioni in maniera fine a sé stessa. Ultimamente, quello che accade sempre più spesso, è che funzionano meglio le storie che portano con sé molta commozione o che seguono una sorta di storytelling negativo (accade nel comunicare temi di politica per esempio), con l’obiettivo di ottenere consenso e gradimento.
Diversamente, quello che cerchiamo di fare noi è approcciare le storie in modo responsabile perché le storie sono strumenti potenti, da maneggiare con cura. A scapito di avere meno ascolti, preferiamo portare avanti storie che abbiano davvero un messaggio utile, che non è detto sia sempre positivo, ma almeno che sia di ispirazione e di esempio, e non semplicemente un coinvolgimento emotivo fine a sé stesso. È una cosa che cerchiamo di portare anche nel mondo del branded evitando alcune strade facili che sono generalmente più frequentate.
Credi che sia in atto una rivoluzione audio a discapito di una realtà dominata da video e immagini?
Credo che ormai questa rivoluzione ci sia stata, tra il 2019 e il 2020, un momento di svolta in cui si è passati dal chiedersi cosa fosse il podcast a capire cosa fosse concretamente.
Tuttavia, lavorando nella comunicazione e frequentando i social media, penso che molte persone si stiano stancando del meccanismo della sovraesposizione social e quindi anche dell’utilizzo delle immagini, insomma, di tutto quello che si porta dietro l’essere presenti in Rete. Oltretutto, il fatto di poter ascoltare contenuti che arricchiscono e ispirano, e poterlo fare senza dover guardare lo schermo, è sicuramente qualcosa che alle persone piace.
L’ascolto consente di staccarsi da un certo meccanismo di consumo veloce perché, un altro aspetto che per esempio apprezzo del podcast e dei contenuti audio più in generale, è lo spazio e il tempo che lasciano all’approfondimento di un tema.
Potrebbe sembrare di fare un passo indietro, ma penso che ci siano persone che hanno bisogno di questo e che in questo tipo di contenuti possano trovare un respiro che in altri luoghi non trovano. Il trend di interesse verso contenuti di approfondimento o di attualità, è un cavalcatissimo dai giovani, che sono tra i primi a usare anche i podcast per informarsi. Forse più che di una rivoluzione, si tratta di una controtendenza che incontra dei bisogni travolti un po’ dal successo dei social.
Come si fa bene lo storytelling?
Si fa bene quando ci si mette nei panni di chi deve ascoltare. Questa, secondo me, è la regola principale, ossia ricordarsi sempre che il contenuto che produciamo, che sia un reel, che sia un podcast, deve essere interessante per chi ci ascolta.
Questo ci costringe, ed è anche il bello di questo tipo di approccio, a osservare, ascoltare ed empatizzare con esseri umani variegatissimi, a cui si rivolge ciò che scriviamo, quindi la bellezza del lavorare con la narrazione che “costringe” a comprendere anche tipologie di esseri umani che non sono della propria stretta cerchia e a farsi sorprendere dai comportamenti, dalle abitudini e dalle persone che si osservano.
Una storia è buona ed è scritta bene, non se è creativa o se fa piangere, ma se è giusta e dà qualcosa alle persone a cui deve parlare. Questo ribaltamento che può sembrare semplice, ma non lo è affatto, soprattutto quando si lavora con le aziende, è la chiave di un buon racconto.